Intelligenza, inganno e forza in Omero

Metis, μήτις, l’intelligenza nei suoi vari aspetti, è il termine con il quale il poeta indica la facoltà del pensiero che, precorrendo con la mente gli esiti delle decisioni presenti, consente di suggerire la soluzione migliore e più razionale ad eventuali problemi e situazioni: per dirla con Chantraine, con metis si intende «talvolta “piano, piano abile”, più spesso “saggezza”, abile ed efficace, che non esclude l’astuzia».

Per fare un esempio possiamo esaminare l’episodio della corsa dei carri, quando Nestore si rivolge al figlio Antiloco per dargli qualche buon consiglio per vincere la gara (Il. XXIII, 305-348). Il saggio Nestore consiglia al figlio «già assennato di per sé» come dice Omero (Il. XXIII, 305), di agire usando appunto la metis, che permette anche all’auriga dotato dei cavalli peggiori di superare gli altri, così come è la metis, non la forza, ad aiutare il boscaiolo nel suo lavoro, o il timoniere a governare la nave; grazie alla conoscenza di “accorgimenti” (κέρδεα) opportuni anche chi parte svantaggiato può vincere. Nestore non suggerisce nulla di scorretto, a meno che non si voglia considerare scorretto fare il massimo che si può con quello che si ha, certo usando degli “accorgimenti”, potremmo dire i “trucchi del mestiere”, in questo caso tipici della consumata perizia di auriga.

Si può notare che nel discorso di Nestore emerge esplicita l’alternativa «μήτι», con il senno, e «βίηφι», con la forza (Il. XXIII, 315), e infatti sapendo che i cavalli degli altri contendenti sono più forti dei suoi, le possibili scelte di Antiloco si riducono a tre: o non gareggia, o si rassegna ad arrivare ultimo, oppure utilizza la sua maggiore abilità come auriga per supplire alla minor velocità dei propri cavalli. Il figlio di Nestore alla fine arriverà secondo, dopo aver costretto con una guida spericolata Menelao a lasciarlo passare:  l’Atride gli rimprovererà di averlo superato «δόλῳ», con l’inganno, e non quindi, come suggeriva Nestore, «μήτι». I due termini, anche se separati da una linea sottile, evidentemente sono ben diversi: non sarebbe quindi corretto tradurre “metis” con “astuzia”, che è sì uno dei significati, ma non il più valido in questo contesto e giustamente Chantraine osserva che il concetto di metis «non esclude l’astuzia», ma non si riduce a questa: quindi è più opportuno tradurre il termine con “saggezza, prudenza, senno”, poiché servirebbe a poco al boscaiolo essere astuto, così come al pilota della nave, che farebbero meglio ad essere saggi e prudenti. Nella nostra lingua, poi, astuzia ha una connotazione negativa, che nel testo omerico vediamo presente in «δόλῳ», ma non in «μήτι».

Questo episodio del canto XXIII dell’Iliade è interessante perché possiamo notare la correlazione/opposizione tra μήτις (senno), δόλος (inganno) e βία (forza); vediamo che Nestore manifesta un’esplicita preferenza per la prima rispetto all’ultima. Non che Omero abbia qualcosa contro la forza, ma in assenza di questa o in presenza di una forza maggiore l’uomo assennato ha la sua “arma segreta”: il pilota non può battere in forza il mare, così come Odisseo fa uso della sua superiore metis di fronte alla forza maggiore per esempio del ciclope o anche dei proci. In questi ultimi casi anzi è lecito anche il δόλος, a differenza della gara “sportiva” dove gli eroi omerici riconoscono la necessità di un certo fair play.

Penelope si serve della propria metis per contrastare le mire dei proci, che invece fanno uso di βία; anche in questo caso vediamo come una persona apparentemente svantaggiata può tentare di contrastare avversari più forti. Eva Cantarella sostiene che Omero ci mostrerebbe la metis di Penelope inferiore alla metis di Odisseo, e ritiene la metis «un’intelligenza “bassa”, che a differenza del logos non è astratta, non classifica, non costruisce categorie». Ma in Omero non esiste niente di “astratto” e tanto meno classificazioni e «categorie»: il poeta mostra la più grande ammirazione per Penelope e per la sua sagacia e non rileva mai una “superiorità” di Odisseo rispetto a sua moglie in questo ambito. Niente può indurci a pensare che Omero considerasse la metis “inferiore” o “bassa”, ed egli non distingue tra metis, femminile, e logos, maschile; inoltre il termine logos, λόγος, che in seguito significherà anche «intelligenza, ragione», in Omero si trova solo al plurale, ad indicare i «discorsi», secondo quanto riporta Ebeling nel suo Lexicon Homericum. Zeus stesso viene chiamato μητίετα, saggio, senza che ciò lo “femminilizzi” o lo sminuisca, tutt’altro. Odisseo viene definito come abbiamo visto πολύμητις, scaltro, ingegnoso, Διὶ μῆτιν ἀτάλαντος, pari a Zeus per saggezza e anche Ὀδυσσεύς δαίφρων ποικιλομήτης, Odisseo valente e scaltro: la radice μήτις, presente in ognuno di questi epiteti, evidentemente elogiativi, indica che metis conserva sempre un’accezione positiva.

Cantarella prosegue osservando che

… a ben vedere, l’intelligenza astuta di Penelope si rivela del tutto fallimentare, là dove viene usata per raggiungere quello che, all’interno della sua storia, è il suo obiettivo fondamentale, vale a dire il rifiuto del nuovo matrimonio…
In un mondo in cui il metro di giudizio di un atto è il suo successo, la metis di Penelope è inesistente.

Il raggiungimento degli obiettivi si riscontra nei fatti e, nei fatti, Penelope non ha dovuto sposare nessun altro, quindi il suo obiettivo è stato in realtà raggiunto. Ovviamente non poteva pensare che lo stratagemma della tela durasse per sempre. Omero non dice mai che i proci fossero intellettivamente inferiori alla media, e di conseguenza, dopo un certo periodo di attesa, anche senza il tradimento delle ancelle infedeli, persino il meno dotato avrebbe cominciato ad avere qualche sospetto, dal momento che la regina era famosa, oltre che per la sua bellezza e saggezza, anche per l’abilità nelle opere femminili, e comunque il poeta ci informa per bocca di Antinoo che ci misero tre anni per accorgersi dell’inganno (Od. II, 106). E’ chiaro che quello della tela fosse uno stratagemma teso a guadagnare un po’ di tempo nella speranza di veder tornare lo sposo, o di avere un’altra idea ed ha pienamente raggiunto il suo obiettivo.

Concludendo, possiamo notare come Omero mostri negli episodi citati di apprezzare gli individui, siano essi uomini o donne, giovani o anziani, in grado di fare uso delle facoltà intellettive allo scopo di raggiungere i propri obiettivi, anche in presenza di una forza maggiore, alla quale non ci si rassegna senza aver tentato tutto il possibile. Anche in questo caso la grandezza di Omero sta nel non presentare norme universalmente valide sempre e dovunque: sta al singolo capire se, nel caso specifico, egli sta usando la μήτις, o non piuttosto il δόλος, e se la situazione giustifichi o no la scelta da lui operata.