Ἄτη e responsabilità

Per comprendere meglio le dinamiche della decisione individuale nell’azione umana secondo Omero occorre valutare il ruolo della Ate, dell’accecamento che porta all’errore. Dopo la morte di Patroclo, al momento della riconciliazione con Achille, Agamennone discolpandosi davanti all’assemblea degli Achei cerca di attribuire la responsabilità della discordia che tanto aveva danneggiato l’esercito su soggetti ben più potenti di lui (Il. XIX, 86-91):

… ma non sono io la causa,
bensì Zeus e la Moira e l’Erinni vagante nell’oscurità,
che in assemblea mi scagliarono in petto l’atroce Ate,
il giorno in cui portai via ad Achille il suo premio.
Ma cosa avrei potuto fare? Il Dio porta ogni cosa al suo termine.
Ate è figlia primogenita di Zeus, e a tutti acceca la mente.

Neppure Zeus potè sfuggirle, osserva l’Atride. Tuttavia, egli stesso in un’altra occasione aveva detto (Il. II, 375-378):

ma a me Zeus Cronide signore dell’egida ha procurato dolori,
che mi getta in vane contese e contrasti.
E infatti io e Achille ci siamo scontrati con parole violente per la ragazza
ma io ho cominciato mostrandomi ostile.

In questo caso Agamennone esordisce con una giustificazione autocommiserativa, alla quale in fondo crede poco lui stesso: noi sappiamo infatti, con il poeta, che Zeus non c’entrava e nemmeno Apollo, che ha sì provocato la pestilenza, ma in seguito alla tracotanza di Agamennone, che non ha rispettato nemmeno un sacerdote, trattandolo male contro il parere degli altri Achei. Più onesta la seconda parte del discorso, dove l’Atride ammette le proprie responsabilità nell’incresciosa questione: «ma io ho cominciato mostrandomi ostile».

E’ chiaro dal testo che la responsabilità non è degli Dei, della Ate o della Moira, ma di colui che ha agito e che tenta così di discolparsi. Ciò è esplicitato nell’Odissea, quando Zeus si rammarica del fatto che gli uomini diano agli Dei la colpa delle sventure che si procurano da soli (Od. I, 32-44), ma già nell’Iliade è evidente dai fatti: l’autodifesa di Agamennone è stata implicitamente smentita dal poeta che, pur facendo sempre notare i frequenti interventi divini, non ci ha detto nulla sulle presunte responsabilità che l’Atride attribuisce ad altri agenti che lo avrebbero accecato. Non è difficile capire quale peso Omero dia a questo discorso di Agamennone.

Il riferimento all’accecamento però, al di là del fatto di esser stato provocato da un agente divino, non è del tutto privo di consistenza. Nella scena della disputa tra Achille ed Agamennone il poeta descrive una situazione nella quale i due protagonisti non hanno intenzionalmente voluto quel che poi invece è successo: Achille convoca l’assemblea pensando al bene di tutti ed Agamennone è disposto a cedere nell’interesse della collettività. Agamennone, come capo supremo dell’esercito, è però subito preoccupato del proprio prestigio, di come cioè poter mantenere il rispetto dell’esercito pur facendo un passo indietro per il bene di tutti: la sua posizione, in effetti, non è facile e con due insuccessi di fila (l’offesa al sacerdote contro il parere degli altri Achei, con conseguente danno pubblico, e la cessione del proprio premio, con conseguente danno personale) non farebbe una gran bella figura.

Tenta quindi di mettere in chiaro davanti a tutti che non accetterà di rimanere lui solo privo di quella manifestazione tangibile di onore che è la preda di guerra. Non c’è dubbio che la responsabilità più grave sia di Agamennone, come lui stesso riconoscerà, ma Achille, evidentemente anche per inesperienza, non prova nemmeno a trovare una soluzione onorevole per il comandante supremo, per esempio rimandando ad un secondo momento e in privato la soluzione del problema, come probabilmente avrebbero fatto Odisseo o Nestore. Bisogna anche osservare che la vicenda sarà di valido insegnamento per il futuro: in occasione dei giochi funebri di Patroclo, Achille si dimostrerà molto più diplomatico nel tener conto delle necessità e delle sensibilità altrui, ed alla fine del poema Agamennone sarà molto più propenso alla moderazione e alla saggezza che non al principio. Comunque è chiaro che inizialmente sia Achille che Agamennone sono mossi dalla responsabilità di provvedere al bene comune e che ne vengono distolti alla fine per errori di valutazione: da qui il rimando all’accecamento.

L’attribuzione di responsabilità ad agenti esterni, soprannaturali, poteva essere invocata dal singolo per tentare di scagionarsi o almeno alleviare le proprie responsabilità, per rendere più disposti alla riconciliazione gli uomini ai quali avesse fatto torto, se costoro erano disposti ad essere indulgenti con lui, con quelle che potremmo definire circostanze attenuanti: in poche parole, «non ero del tutto in grado di intendere e di volere». Che poi fosse presa sul serio, dipendeva dalla predisposizione caratteriale dell’ascoltatore e dalla personale simpatia nei confronti del “presunto colpevole”. Così, quando si era inclini ad evitare una severità di giudizio che avrebbe potuto comportare conseguenze radicali che non si desiderava provocare, queste attenuanti potevano essere efficacemente fatte valere, consentendo l’appianamento di un eventuale conflitto. Per questo motivo valgono, nel caso, all’interno della stessa comunità, non all’esterno di essa.

Sembra che gli uomini di quest’epoca abbiano cercato di limitare le conseguenze punitive che l’individuazione del colpevole umano avrebbe comportato, attenuando il peso delle responsabilità col chiamare in causa altri fattori esterni all’uomo: si potrebbe ipotizzare un’età precedente nella quale fosse punita severamente qualsiasi colpa, anche non volontaria, ma semplicemente prendendo in considerazione le conseguenze dell’azione, come lascerebbero supporre divinità inesorabili come le Erinni, sostituite nel culto dai più “civili” Dei olimpici, ma non dimenticate. In una società senza leggi codificate e priva di organismi statali volti alla composizione dei conflitti, con una popolazione orgogliosa e abituata alla violenza, un torto avrebbe potuto facilmente provocare una reazione estrema: l’alterco tra Achille e Agamennone ci arriva molto vicino. Poter attenuare la propria responsabilità, attribuendola alla ate provocata da qualche Dio, lasciava una via d’uscita onorevole sia per chi doveva ammettere il proprio torto, sia per chi doveva mostrare indulgenza: un valido escamotage insomma, ma del quale non si doveva abusare, da qui l’opportunità di sottometterlo ad una sorta di tutela divina. Non significa che ciò sia avvenuto con una decisione consapevole: era normale che l’uomo animato da sincero spirito religioso pensasse agli Dei anche in questo caso.

In nessun modo, comunque, si cancella la responsabilità umana: la consapevolezza della dignità dell’uomo è troppo forte per considerarlo irresponsabile delle sue azioni, ma poiché l’uomo è anche ritenuto fondamentalmente nobile e di elevato sentire, riesce difficile pensare che possa commettere azioni riprovevoli senza un accecamento che, per un animo religioso che non sia al contempo ossessionato da demoni cattivi, non può che venire dagli Dei.

Attribuire a forze esterne la responsabilità indica una particolare concezione dell’uomo: va riferita a quella che potremmo definire una convinzione filosofica di base, e cioè che l’uomo, ma soprattutto l’eroe, sia naturalmente saggio e virtuoso, e che se erra ciò accada suo malgrado, per influsso esterno. L’uomo quindi è un essere razionale che percepisce come estranee alla propria natura quelle azioni che non si accordano con la ragione.

Il racconto del poeta comunque smentisce in realtà le parole degli eroi, dal momento che né Zeus, né gli altri Dei sono responsabili della momentanea perdita di senno dei protagonisti, assolvendo, se così si può dire, gli Dei da tale accusa. Ettore, parlando tra sé prima del fatale scontro con Achille, attribuirà a se stesso la responsabilità di non aver ascoltato il saggio consiglio di Polidamante, provocando la rovina dell’esercito troiano (Il. XXII, 103-107).

Questo caso, come altri dello stesso tenore, indica che l’errore prodotto dall’accecamento può essere evitato, dando ascolto ad un buon consiglio: Achille, nell’assemblea in cui si adira contro Agamennone, dà infatti ascolto al consiglio di Atena, evitando la ἄτη. Lo stesso Achille darà a Patroclo un buon consiglio, ingiungendogli di non cercare di prendere Troia, ma di ritirarsi dopo aver respinto i Troiani dalle navi: il figlio di Menezio non lo ascolterà, andando incontro al suo destino.