Achille, i premi e la virtù

Nell’episodio della gara dei carri per i funerali di Patroclo si può osservare in pratica il senso di giustizia degli eroi di Omero e soprattutto del massimo tra gli eroi, Achille. Ecco in breve il racconto: gareggiano Eumelo figlio di Admeto, Diomede figlio di Tideo, Menelao figlio di Atreo, Antiloco figlio di Nestore e Merione figlio di Molo. Passata la meta, è in testa Eumelo, seguito da Diomede: quest’ultimo passa in testa con l’aiuto di Atena che causa la caduta del povero figlio di Admeto. Dietro vengono Menelao e il figlio di Nestore: quest’ultimo, nonostante i suoi cavalli siano peggiori, costringe l’Atride a farlo passare per evitare che la sua guida sconsiderata provochi l’urto dei carri e la caduta rovinosa di uomini e cavalli (vedi altro post Intelligenza, inganno e forza in Omero).

Al traguardo arrivano dunque nell’ordine Diomede, Antiloco, Menelao, Merione ed Eumelo, ultimo e tutto pesto per la caduta. Omero dedica molti versi a questa gara, e non a caso: la parte più interessante è la distribuzione dei premi compiuta da Achille. Il primo premio spetta senza contestazioni a Diomede. Il secondo premio Achille vorrebbe assegnarlo ad Eumelo, commosso dal fatto che il migliore auriga sia arrivato ultimo a causa di un malaugurato incidente: gli Achei approvano questa decisione. Ma Antiloco la contesta fermamente, obiettando che se Eumelo avesse pregato gli Dei non sarebbe arrivato ultimo e suggerisce che Achille assegni, se vuole, un altro premio, anche più bello, dandogli qualcosa di suo, ma non la cavalla destinata al secondo arrivato: Achille è d’accordo e regala una corazza ad Eumelo.

Ma anche Menelao ha le sue rimostranze da fare. Accusa Antiloco di aver disonorato il suo valore (Il. XXIII, 571), e gli chiede di giurare (Il. XXIII, 584-585),

toccando i cavalli in nome di Poseidone che scuote la terra
attesta con giuramento che non hai bloccato il mio carro volutamente e con l’inganno.

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Intelligenza, inganno e forza in Omero

Metis, μήτις, l’intelligenza nei suoi vari aspetti, è il termine con il quale il poeta indica la facoltà del pensiero che, precorrendo con la mente gli esiti delle decisioni presenti, consente di suggerire la soluzione migliore e più razionale ad eventuali problemi e situazioni: per dirla con Chantraine, con metis si intende «talvolta “piano, piano abile”, più spesso “saggezza”, abile ed efficace, che non esclude l’astuzia».

Per fare un esempio possiamo esaminare l’episodio della corsa dei carri, quando Nestore si rivolge al figlio Antiloco per dargli qualche buon consiglio per vincere la gara (Il. XXIII, 305-348). Il saggio Nestore consiglia al figlio «già assennato di per sé» come dice Omero (Il. XXIII, 305), di agire usando appunto la metis, che permette anche all’auriga dotato dei cavalli peggiori di superare gli altri, così come è la metis, non la forza, ad aiutare il boscaiolo nel suo lavoro, o il timoniere a governare la nave; grazie alla conoscenza di “accorgimenti” (κέρδεα) opportuni anche chi parte svantaggiato può vincere. Nestore non suggerisce nulla di scorretto, a meno che non si voglia considerare scorretto fare il massimo che si può con quello che si ha, certo usando degli “accorgimenti”, potremmo dire i “trucchi del mestiere”, in questo caso tipici della consumata perizia di auriga.

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Gli Dei e la giustizia

In Omero gli Dei, pur non intervenendo in ogni singolo caso, non sono tuttavia insensibili di fronte alle ingiustizie: l’Iliade si apre proprio con due esempi di ingiustizie subite, e punite da una diretta intromissione divina. Esplicitamente Omero rileva come l’arroganza di Agamennone sia causa, in rapida successione, degli interventi prima di Apollo in difesa di Crise, e poi di Zeus a sostegno delle ragioni di Achille. In quest’ultimo caso, soprattutto, Achille potrebbe anche farsi giustizia da solo, ma preferisce astenersi dalla violenza e confidare nella parola degli Dei, che lo esortano alla pazienza: è evidente che il poeta insiste su questo aspetto, spesso mettendo in risalto le conseguenze nefaste della tracotanza degli uomini.

L’Odissea si chiude con la partecipazione di Atena al massacro dei proci; Omero evidenzia quanto sia patetica l’arroganza con la quale uno di loro apostrofa la Dea, presente sotto le sembianze di Mentore, minacciando di morte e ritorsioni colei che egli ignora essere una Dea immortale.

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