L’Achille dell’Odissea

Quando, evocando le anime dei morti, Odisseo vede l’ombra di Achille, subito gli dice: «o Achille, nessun uomo vi è stato in passato più beato di te né vi sarà in futuro: prima infatti da vivo ti onoravamo al pari degli Dei noi Argivi, e anche ora hai un grande potere sui morti stando qui: non affliggerti della morte, o Achille» (Od. XI, 482-86).

Ma il Pelide gli risponde amaro: «non consolarmi della morte, nobile Odisseo» (Od. XI, 488), confessando che preferirebbe servire da bracciante un uomo povero, piuttosto che regnare su tutti i morti.

Questo episodio ha dato luogo ad un equivoco poiché a molti è sembrato che con queste parole Achille criticasse in qualche modo «l’ideale della morte eroica» cui si era ispirato da vivo: ma, a parte il fatto che non esiste in Omero un’ideale di morte eroica dal momento che l’ideale cui si ispirano gli eroi di Omero non è un certo tipo di morte, ma un certo tipo di vita, Achille vi si attiene ancora fermamente visto che subito dopo chiede ad Odisseo notizie di suo figlio, «se è andato in guerra a combattere in prima fila oppure no» (Od. XI, 493).

Con queste parole Achille non rinnega nulla della sua vita, semplicemente la rimpiange: i vivi possono avere molti desideri e aspirazioni, ma per i morti non c’è che nostalgia. Pensando al padre Peleo, che gli è sopravvissuto, l’eroe «di gran lunga il migliore degli Achei», come l’ha appena definito Odisseo (Od. XI, 478), si preoccupa che il vecchio non riceva il giusto rispetto, privato della protezione del figlio: certo nessuno oserebbe offenderlo se Achille gli fosse accanto, «difensore sotto i raggi del sole, essendo tale quale ero allora nella vasta piana di Troia e facevo strage di prodi, soccorrendo gli Argivi. Ah, se mi fosse concesso andare così anche per un solo momento dal padre…» (Od. XI, 498-501), così come lo descrive Omero nell’Iliade: «si lanciava ad acquistare gloria il Pelide, le mani tremende macchiate di sangue» (Il. XX, 502-503).

Le parole di Achille nell’Odissea non sono in contrasto con quelle che egli pronuncia nell’Iliade. Non è un caso che sia proprio il più valoroso tra gli eroi a dire «nulla per me vale quanto la vita…» (Il. IX, 401) tra tutte le ricchezze che si possono trovare sulla terra, poiché «la vita dell’uomo non si può saccheggiare né predare perché ritorni di nuovo, dopo che abbia varcato il recinto dei denti» (Il. IX, 408-409).

Achille, come era sua abitudine nell’Iliade, non nasconde i suoi sentimenti: anche solo per un attimo, vorrebbe tornare ad essere quello che era. E questo è assolutamente comprensibile: ma non è il caso di spingersi troppo oltre.

E’ evidente che nel discorso di Achille sono messi a confronto il bracciante vivo e il re morto, non l’eroe: infatti egli esordisce dicendo ad Odisseo di non consolarlo della morte, ed è questa affermazione che da il senso alle parole che seguono. La morte non può essere bella, nemmeno per chi si trovasse a regnare sulle ombre dei defunti: il povero bracciante vivo, «sotto i raggi del sole», sta meglio del re dei morti. Il morto manca di qualcosa rispetto al vivo e anche per il grande Achille non c’è differenza: i morti non sono più ciò che erano da vivi. Ma quando si è vivi, nel pieno delle forze e delle facoltà mentali, si pongono altre priorità, come ricorda Epitteto: «a che scopo… mi domandi: “E’ preferibile la morte o la vita?”. Io rispondo: “La vita”. “La fatica o il piacere?” Io rispondo: “Il piacere”». Tuttavia, «colui… che si sia messo anche una sola volta a riflettere su siffatte questioni, confrontando tra loro il valore degli oggetti esterni e calcolandolo, è molto simile a quelli che hanno ormai dimenticato il valore della propria persona»: e se c’è qualcosa che Achille non dimentica certamente mai è il valore della propria persona.

Anche Aristotele, parlando del coraggio, farà alcune considerazioni che sembrano particolarmente valide nel caso di Achille: «il coraggio comporta anche dolore ed è giusto che venga lodato: infatti è più difficile affrontare le situazioni dolorose che astenersi dai piaceri. Tuttavia si riconoscerà che il fine che il coraggio permette di raggiungere è piacevole, ma che è oscurato dalle circostanze… E poiché le cose dolorose sono molte, mentre il fine è piccola cosa, esso sembra non avere niente di piacevole. Se, dunque, la situazione è tale anche nel caso del coraggio, la morte e le ferite saranno dolorose per l’uomo coraggioso, che le subirà contro voglia, ma le affronterà perché è bello affrontarle, ovvero perché è brutto non farlo. E quanto più completa sarà la virtù che possiede e quanto più sarà felice, tanto più soffrirà di fronte alla morte: è per un uomo simile, soprattutto, che la vita è degna di essere vissuta, ed è lui che sarà privato dalla morte dei beni più grandi, e lo sa; e ciò è doloroso. Ma non è affatto meno coraggioso, anzi, forse lo è anche di più, perché sceglie, in cambio di quei beni, ciò che in guerra è bello…».

E ciò che in guerra è bello, come risulta chiaro anche qui, non è il morire, ma realizzare un ideale di comportamento etico nell’agire coraggiosamente, cioè virtuosamente. Omero mette spesso in evidenza ciò cui i combattenti consapevolmente rinunciano perdendo la vita in battaglia, e questo fa appunto risaltare la loro virtù.