Uomo omerico ed Homo Sapiens

Per poter parlare di etica è necessario che il soggetto agente sia consapevole di se stesso ed in grado di autodeterminarsi: può sembrare strano a chi abbia effettivamente letto Omero, ma tale consapevolezza ed autodeterminazione è stata spesso negata dai moderni studiosi agli eroi omerici. Mi sembra necessario perciò mostrare quanto siano rilevanti nei poemi le caratteristiche individuali dei singoli, quanto essi siano coscienti della propria specificità ed autonomia, in poche parole come l’uomo descritto da Omero sia a tutti gli effetti un individuo, nel senso completo che diamo oggi a questo termine: questo tema non può essere esaurito in un unico post, e verrà quindi sviluppato anche in seguito, tuttavia possiamo cominciare ad accennare alla questione.

Anche se gli studiosi hanno spesso la discutibile abitudine di trattare l’oggetto della loro ricerca come potrebbero fare degli entomologi o dei biologi, è opportuno ricordare che nel caso degli eroi di Omero si sta comunque parlando di individui ormai appartenenti al genere Homo Sapiens. Per gli esponenti della nostra specie è impossibile ed assurdo parlare di «esperienze non accentrabili intorno ad un io consolidato, a un complesso psicosomatico unitariamente governato», quale secondo Mario Vegetti sarebbe l’uomo omerico; ai tempi di Omero l’io era già consolidato da millenni. I paleontologi ritengono possibile che già l’Homo Ergaster (circa 1,5 milioni d’anni fa) avesse consapevolezza di sé e delle proprie azioni: appare quindi abbastanza improbabile negare queste facoltà per gli eroi dell’epos.

Anna Marina Storoni Piazza invece sostiene che: «un’antropologia che non distingue chiaramente l’interiorità dalla esteriorità, l’io dal non-io, il soggetto dall’oggetto, per la quale l’individuo non ha ancora preso coscienza di sé, delle fasi del suo processo decisionale, della sua capacità di elaborare un pensiero autonomo, non può concepire il linguaggio come espressione personale di concetti e nessi logici, ma solo come manifestazioni di Potenze esterne, atti di volontà eteronome. I dialoghi con il thymos costituiscono una prova del fatto che i personaggi omerici sono consapevoli di quello che vogliono e pensano soltanto nel momento in cui interagiscono con gli altri, cioè quando parlano, o meglio, quando danno voce all’autorità che più forte risuona dentro di loro».

Naturalmente, a tutti può capitare qualche volta di parlare senza aver prima riflettuto, ma che questo possa realmente costituire la regola assoluta per un individuo sano e normale, anzi di un’intera società, non è sostenibile: c’è da chiedersi se possano esistere uomini che non distinguano «l’interiorità dalla esteriorità, l’io dal non-io, il soggetto dall’oggetto». Dovremmo davvero stupirci del fatto che le vicende, a questo punto surreali, di questi strani esseri abbiano appassionato e commosso gli uomini di tutte le epoche per millenni fino ai nostri giorni: rileggiamoci questi commenti di moderni studiosi e chiediamoci onestamente com’è potuto accadere che i poemi di Omero siano ancora tra gli ineguagliati capolavori dell’ingegno umano, se parlassero realmente di uomini siffatti, ammesso che di uomini possa ancora trattarsi.

Non tutti i moderni studiosi, comunque, condividono le opinioni sopra criticate: molto più acutamente, Moses Finley, dopo aver osservato che «si è detto talvolta che l’antropomorfismo dei poemi omerici è il più completo, il più estremo che ci sia noto; né prima né in seguito gli Dei sono stati così simili agli uomini…», ne mette in evidenza le implicazioni: «fu un passo audacissimo, dopo tutto, l’innalzare l’uomo al punto che potesse diventare l’immagine degli Dei… Ciò che essi fecero (Omero ed Esiodo), l’atto stesso e la sua sostanza, implica un’autocoscienza umana e una fiducia in se stessi inaudite e piene di possibilità illimitate».

L’antropomorfismo degli Dei non indica una bassa concezione degli Immortali, ma piuttosto la più alta considerazione di sé che l’uomo abbia mai avuto. Infatti, l’aver rappresentato gli Dei in forma umana non significa che gli Dei siano simili agli uomini, bensì piuttosto che gli uomini siano simili agli Dei: come sintetizzava magistralmente Cicerone nel De Natura Deorum (I, 32, 90), «non ergo illorum humana forma sed nostra divina dicenda est», cioè «quindi non è la loro forma (degli Dei immortali) che deve essere definita umana, ma la nostra divina».

Occorre inoltre richiamare l’attenzione sul fatto che i poemi omerici, in particolare l’Iliade, sono incentrati per loro natura sull’azione, non sono testi filosofici, pur contenendo anche riflessioni filosofiche; non sono testi teologici, pur proponendo una propria visione del mondo divino; e non sono romanzi introspettivi. Possiamo anche osservare che un poema di guerra non sarebbe troppo realistico se ci presentasse i suoi eroi come intellettuali concentrati sul proprio io piuttosto che sui fatti, implicanti la vita o la morte, che accadono intorno a loro: una battaglia non è forse il momento più adatto per filosofare, mentre Omero mostra più che adeguatamente lo spazio consono al pensiero prima, durante e dopo le battaglie.